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Come degli Ulisse mai sazi di verità

Editoriale di Daniela Piesco Co-Direttore del giornale internazionale on line Radici 

Scrive Rideur in Filosofia della volontà, datato 1950, che la “necessità è essenzialmente ambigua: ciò che è condizione è al tempo stesso limite, ciò che mi fonda è anche ciò che mi distrugge”

Appare pacifico ,quindi, alla natura umana, l’anelito a spostare sempre più in là il confine del possibile, a misurare le proprie forze contro i limiti imposti dalla realtà.

In questa tensione all’illimitato risiede in fondo il tratto distintivo dell’uomo rispetto agli animali e alle cose: nella libertà e con l’intelligenza che gli sono date, egli è costantemente proteso a scrivere una nuova pagina di storia.

E tale avventura è accompagnata da forti emozioni, che la rendono ancora più bella e irresistibile.

Ricoeur parla di una natura umana originariamente non malvagia e del male come di una possibilità storica inscritta nella limitatezza umana: il male non è mai originario, ma s’incontra nella «spontaneità assoluta dell’azione» e nel rischio di un’ammaliante seduzione.

Il male, anche positivo, anche potere di seduzione, per quanto colpisca e infetti, non potrà mai fare dell’uomo qualcosa di diverso dall’uomo o produrre un’altra realtà diversa dalla realtà umana

Il tragico epilogo del Titan, che ha tenuto banco tra le pagine di cronaca di questi giorni, è soltanto l’ultimo di una lunga serie di imprese oltre i limiti nella quali l’ uomo è mosso dal desiderio di sfidare un destino a rischio di rivelarsi drammaticamente beffardo.

Nel caso di specie un batiscafo, usato per offrire a drappelli di turisti danarosi l’emozione di poter osservare il relitto del lussuoso transatlantico divenuto oltre un secolo fa simbolo di sventura dei mari, è infatti imploso,a causa di una catastrofica depressurizzazione,dopo poche ore dall’ immersione.

Le domande si affollano nella mente:dove finisce la corsa verso il progresso e dove comincia la consegna all’incoscienza?

Che cosa può spingere un uomo ad affrontare un’impresa tanto rischiosa come infilarsi in un piccolo siluro d’acciaio per andarsi a fare una gita attorno ai relitti del Titanic?

Ma soprattutto, che cosa può spingere, come ha titolato qualche giornale, a pagare 250 mila euro per giocarsi la pelle?

A tal proposito il noto psicoterapeuta Paolo Crepet ha sostenuto che” È dai tempi di Ulisse che il rischio è insito nelle grandi o anche piccole imprese umane. Chi denigra questi signori sono i Proci, le Sirenette..
Hanno sfidato la natura rispondendo al richiamo di una passione. E loro hanno, semplicemente, perso.E’ eclatante chi parla di loro, non la loro impresa

Ebbene pur condividendo,con il noto luminare summenzionato, che per sua natura, l’uomo è portato a superare i suoi limiti, è doveroso sottolineare che spesso manca la consapevolezza delle proprie reali possibilità.

E non c’è emozione al mondo che giustifichi la morte di un uomo.

Scendere in sommergibile nelle profondità oceaniche è un’attività estrema, che comporterebbe dei rischi anche nel caso di aver messo in campo tutti i sistemi e le procedure di sicurezza possibili, rischi che le persone a bordo si erano assunte.

Nel momento in cui la nostra impresa si trasforma in un’esposizione eccessiva al pericolo, tale da mettere a repentaglio la vita, propria e altrui, non è giustificabile. Anche perché denuncia poca consapevolezza dei propri limiti, un delirio di onnipotenza dal quale non possono che sortire effetti deleteri.

Ma vi è di più.

Nel caso in esame due sono le circostanze che inducono a riflettere.

La prima riguarda le affermazioni del ceo di OceanGate il quale disse che “la sicurezza è un puro spreco.Se si vuole rimanere al sicuro non ci si deve alzare dal letto, non si deve entrare in macchina, non si deve fare niente”.

Il Titan , infatti, così come i veicoli simili, era soggetto ad una supervisione regolamentare molto limitata e questo ha aperto la strada a scorciatoie in termini di sicurezza da parte della società.E dunque OceanGate ha preferito continuare a monetizzare pur conoscendo i rischi a cui stava andando incontro.

Il risultato è sotto gli occhi del mondo.

La seconda è che l’ ex editorialista tecnologico del New York Times David Pogue filmò nel 2022 un servizio a bordo del sottomarino per Cbs, riferendo che prima di iniziare il viaggio gli fu fatta firmare una liberatoria:”‘Questo natante’, c’era scritto, ‘non è stato approvato o certificato da nessun organismo di regolamentazione e potrebbe provocare lesioni fisiche, traumi emotivi o la morte'”.

Ebbene caro Crepet non occorrebbe definire il fine della nostra azione?

Non crede che un conto sia morire per salvare un’altra vita, un altro per godere di un brivido in più?

C’è brivido che valga una vita?

Il problema della “sfida” agli altri e a se stessi si inserisce in questo bisogno di approvazione, anche se in modo distorto e pericoloso. Riuscire in “imprese” rischiose è un mezzo per dimostrare di “valere”, quanto e più degli altri.

Già da almeno un paio di decenni il fenomeno è oggetto di ricerche e riflessioni da parte di psicologi e sociologi e ognuno ha gettato luce su qualche suo aspetto.

Secondo Brymer et al. (2020), per alcuni, la popolarità si spiega con il desiderio di ribellarsi a una società che sta diventando troppo avversa al rischio, per altri con lo spettacolo e il merchandising che ruotano intorno alle attività di atleti organizzati. Per altri autori si tratta semplicemente del fatto che ci sono molte persone attratte dal rischio e dal pericolo o che vogliono semplicemente mettersi in mostra.

Per altri ancora si tratta del desiderio di far parte di certe sottoculture e di partecipare al glamour che accompagna gli sport estremi. Vi è infine chi sottolinea la ricerca del perfezionamento delle proprie abilità nell’attività prescelta.

Ma in generale, secondo le prospettive teoriche tradizionali sugli sport estremi, tali attività rappresentano uno “sfogo” per persone mentalmente disturbate che hanno una relazione malsana con la paura, sono patologiche nella loro ricerca del rischio oppure esprimono un desiderio di morte (Brymer, 2006;
Brymer e Oades, 2009; Brymer e Schweitze, 2012; Delle Fave, Bassi e Massimini, 2003; Hunt, 1995b, 1996; Lambton, 2000; Olivier, 2006; Pizam, Reichel e Uriely, 2002; Rinehart, 2000; Self et al., 2007; Simon, 2002).

A questo proposito, Holmbom, Brymer e Schweitzer (2020) osservano che, secondo alcuni autori, la motivazione a dedicarsi a queste attività deriva da profondi difetti di personalità, che si manifestano come un bisogno fondamentale e patologico di emozioni e di rischio.

Personalmente credo che il vero eroe sia colui che si impegna fino a mettere a repentaglio la propria vita in nome di un bene riconosciuto dalla società.

Se ci sacrifichiamo per una causa che, oltre a noi stessi, la maggioranza delle persone normali possono realisticamente giudicare costruttiva dal punto di vista del suo valore pratico per l’umanità, ciò è certamente tragico, ma anche utile e significativo.

Se invece sprechiamo la nostra vita
perché ci siamo resi schiavi del fantasma della gloria per ragioni ignote a noi stessi, ciò assume il terribile aspetto di un tragico sciupio.

In conclusione la vita è già tanto difficile di per sé, ci riserva grandi dolori inevitabili come ad esempio una possibile nostra malattia e morte o quella dei nostri cari. Forse è proprio per distrarsi da questo triste dato di fatto che qualcuno sfida la menomazione e la
morte, quasi a voler conquistare su di esse un illusorio controllo.

Tuttavia non possiamo fare nulla per evitarle.

Anzi, se vogliamo fare qualcosa per non anticiparle inutilmente, possiamo astenerci dalle prestazioni inutilmente pericolose e rinunciare ad essere degli Ulisse mai sazi di verità.

pH Fernando Oliva

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