PA e Giustizia

La recidiva come fallimento dello Stato: ripensare la pena

Di Yuleisy Cruz Lezcano

In Italia, il dibattito sulla funzione della pena e sull’efficacia del carcere come strumento di rieducazione continua a essere vivo e controverso. La Costituzione, all’articolo 27, comma 3, è chiara: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.” Non si tratta di un principio astratto, ma di un fondamento giuridico e civile che impone alle istituzioni il dovere di costruire percorsi di recupero e reinserimento sociale per chi ha commesso un reato. In questa prospettiva, la pena non dovrebbe solo punire, ma favorire un cambiamento, una presa di coscienza, una possibilità di riscatto. Tuttavia, nella realtà dei fatti, la detenzione carceraria spesso fallisce proprio su questo punto: invece di aiutare l’autore del reato a rielaborare il proprio gesto, lo ingabbia in una spirale di vittimismo, marginalità e stigmatizzazione. La frase di Vittorino Andreoli “Il carcere è una costosa inutilità” sintetizza bene questo scetticismo crescente, condiviso da una parte del mondo psichiatrico, giuridico e sociale, che osserva come l’istituzione carceraria, oltre a essere onerosa per le casse pubbliche, non garantisca né la sicurezza sociale né la riduzione delle recidive.

Al contrario, alcune esperienze concrete stanno mostrando che percorsi alternativi alla detenzione possono produrre risultati più efficaci. È il caso dei CUAV, i Centri per uomini autori di violenza, nati in diverse regioni italiane con l’obiettivo di prevenire nuove aggressioni e favorire un cambiamento profondo e duraturo nei comportamenti degli uomini violenti. Attraverso percorsi psicologici, educativi e di gruppo, questi centri non offrono giustificazioni, ma responsabilizzazione: aiutano l’autore a riconoscere la propria violenza, a comprenderne le dinamiche e a interromperle. Non si tratta di impunità, ma di un’altra forma di giustizia, che punta a prevenire le recidive e a garantire una difesa sociale più solida di quella ottenibile con la sola detenzione.

Il tema della recidiva è infatti centrale, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 40 del 2019, relatrice Marta Cartabia, ha posto l’accento sull’importanza della proporzionalità della pena come condizione per la sua efficacia rieducativa. Una pena percepita come sproporzionata dall’autore del reato rischia di minare il senso stesso della punizione, alimentando sentimenti di ingiustizia che ostacolano ogni possibilità di cambiamento. La stessa Corte ha sottolineato che il carcere, se non accompagnato da percorsi di formazione, lavoro, supporto psicologico e sociale, rischia di diventare un contenitore statico, incapace di trasformare la persona e, anzi, spesso favorisce nuove trasgressioni una volta scontata la pena.

I dati confermano questa preoccupazione uno “studio, formazione e lavoro in carcere” (CNEL – Censis – The European House ‑‑ Ambrosetti) rileva che “sei condannati su dieci sono già stati in carcere almeno una volta” (cioè ~ 60%) fra la popolazione detenuta. È evidente allora che il problema non è solo giuridico, ma strutturale: mancano risorse, spazi, personale qualificato e una visione sistemica, ma laddove si investe in questi percorsi, i risultati arrivano. Il carcere, nella sua forma attuale, mostra dunque tutti i suoi limiti. Non solo come luogo di privazione della libertà, ma come strumento inefficace di trasformazione individuale e collettiva. Continuare a investire in un modello punitivo che non rieduca significa non solo tradire la Costituzione, ma anche sprecare risorse pubbliche e accettare un rischio più alto per la società. La vera sicurezza, infatti, non si costruisce con le sbarre, ma con il cambiamento. E il cambiamento si produce solo quando la pena diventa occasione, non vendetta.

Un caso emblematico è quello di Zlatan Vasiljevic, arrestato nel 2019 per maltrattamenti nei confronti della moglie e successivamente inserito in un percorso presso un centro per uomini autori di violenza a Bassano del Grappa. Dopo circa sette mesi di colloqui psicologici e partecipazione a incontri di gruppo, sembrava avviato verso un cambiamento. Eppure, una volta fuori, ha ucciso la sua ex compagna, e con lei altre due donne. Un’escalation drammatica che dimostra quanto certi percorsi, seppur avviati, non bastino da soli. Perché il cambiamento autentico non può essere ridotto a un numero limitato di sedute né valutato sulla base di comportamenti momentanei. Deve essere profondo, continuo, sostenuto da un sistema che accompagni la persona nel tempo, anche una volta terminato il percorso giudiziario o terapeutico. Questo non è un caso isolato, secondo una relazione parlamentare sulla violenza di genere, circa l’85% degli uomini che hanno commesso maltrattamenti tornano a farlo, anche dopo aver partecipato a programmi di trattamento. Il dato, durissimo, non vuole delegittimare l’utilità dei percorsi alternativi alla detenzione, ma ne evidenzia i limiti quando non sono radicati in un sistema strutturato, duraturo e multidisciplinare. Si tratta di persone che spesso rientrano negli stessi contesti familiari, sociali, culturali che avevano alimentato le loro condotte violente. Senza un cambiamento dell’ambiente, senza una rete attorno, il rischio di ricaduta diventa altissimo.

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