Giustizia e voyeurismo: un vizio molto italiano
In Italia, la giustizia non si consuma più solo nelle aule dei tribunali, ma anche, e sempre più spesso, nei salotti televisivi, sui social network e nelle prime pagine dei quotidiani. Quello che dovrebbe essere un principio sacrosanto dello Stato di diritto, la presunzione di innocenza, rischia quotidianamente di essere calpestato da un sistema dell’informazione che, tra fretta, sensazionalismo e audience, diventa giudice e giuria ben prima che lo faccia un tribunale.
Basta un’indagine aperta, una perquisizione, o anche solo un avviso di garanzia, perché un cittadino venga trasformato in colpevole agli occhi dell’opinione pubblica. L’effetto è devastante: il nome, il volto, la casa, il passato, le abitudini dell’indagato vengono sezionati in diretta. La narrazione si costruisce con elementi suggestivi, spesso marginali, ma utili a creare un colpevole “vendibile”.
Nel momento in cui scatta la macchina mediatica, il processo vero perde rilevanza. Poco importa se l’indagine è in fase preliminare, se i fatti sono ancora da accertare, se la persona sarà magari assolta con formula piena anni dopo. L’importante è la notizia, possibilmente “nera” e pronta per essere consumata.
Ciò che alimenta questa dinamica non è solo l’interesse per la giustizia, ma una forma di voyeurismo giudiziario tutto italiano, dove cronaca e intrattenimento si fondono senza soluzione di continuità. Alcuni programmi televisivi costruiscono vere e proprie saghe su casi ancora aperti, con opinionisti, criminologi da salotto e talk show che oscillano tra fiction e realtà. Il dolore delle vittime e la privacy degli indagati diventano materiale narrativo, da sviscerare e commentare come un reality.
È una deriva che coinvolge anche i social, dove la polarizzazione esaspera i toni: da un lato chi chiede “giustizia subito”, dall’altro chi grida al complotto. Nel mezzo, spesso, la verità processuale soccombe sotto il peso della verità percepita.
Il danno che ne consegue è doppio: per chi viene accusato ingiustamente, e vede la propria vita rovinata ben prima di una sentenza definitiva, ma anche per le stesse vittime, spesso strumentalizzate o dimenticate una volta finito il clamore. A farne le spese, in definitiva, è la credibilità della giustizia stessa, sempre più delegittimata da un racconto distorto e urlato.
La direttiva europea 2016/343 ha ribadito con forza il diritto dell’imputato a non essere trattato come colpevole fino a condanna definitiva. Anche l’Italia, nel recepire la direttiva, ha cercato di mettere un freno agli abusi, ma nella prassi quotidiana le norme restano troppo spesso lettera morta.
Il compito dell’informazione non è quello di sostituirsi ai giudici, ma di raccontare i fatti con rigore, equilibrio e rispetto per i diritti di tutti. L’informazione ha il potere di orientare l’opinione pubblica, ma anche la responsabilità di non alimentare un clima da gogna, che trasforma la giustizia in un circo.
Il processo mediatico non è giustizia: è spettacolo. E in uno Stato di diritto, la giustizia non dovrebbe mai trasformarsi in un format televisivo. Tornare a rispettare il principio della presunzione di innocenza non è solo una questione giuridica, ma una sfida culturale. Una sfida che riguarda tutti: media, cittadini e istituzioni.
Avv. Alessandro Numini