Politica nazionale

La crisi di governo e la legge elettorale

Dopo l’estate saremo chiamati a votare per il rinnovo delle Camere del Parlamento: un voto anticipato dovuto alla crisi di governo, che non ha potuto trovare soluzione diversa dallo scioglimento delle Camere ad opera del capo dello Stato.

Il Presidente del Consiglio ha rassegnato le dimissioni in quanto i parlamentari del MoVimento 5 Stelle non hanno partecipato al voto di fiducia in occasione della conversione in legge del decreto legge n. 50/2022, c.d. “decreto aiuti”, nella seduta del Senato del 14 luglio.

Mario Draghi, del resto, aveva ricevuto l’incarico di formare e guidare un Governo di unità nazionale, sostenuto dalla più ampia maggioranza parlamentare per far fronte alla situazione di emergenza in cui versava il Paese: visto il rifiuto di una componente importante della maggioranza di votare la fiducia al Governo, coerentemente al mandato ricevuto Mario Draghi si è dimesso, poiché il Governo da lui presieduto non poteva né doveva essere un Governo della “non sfiducia”.

Altrettanto coerentemente il Presidente della Repubblica lo ha rinviato alle Camere perché non avrebbe potuto accettare le dimissioni di un Governo che aveva appena ricevuto la fiducia, peraltro con una consistente base parlamentare. La valutazione politica fatta dal Presidente del Consiglio, che lo ha condotto a rassegnare le dimissioni, è ben comprensibile, come lo è parimenti la valutazione più strettamente giuridica fatta dal capo dello Stato.

Mario Draghi si è dunque presentato nuovamente in Senato il 20 luglio per svolgere le sue comunicazioni. All’esito di queste ultime sono state presentate due risoluzioni: la prima proposta dai partiti del “centrodestra di governo” in cui si chiedeva una significativa discontinuità rispetto all’azione di governo ed anche alla compagine stessa della maggioranza; la seconda, a firma del senatore Casini, con cui il Senato approvava le comunicazioni del Presidente del Consiglio.

Il Governo ha posto la questione di fiducia su questa seconda risoluzione.

Il Governo ottiene la fiducia, ma questa volta oltre al Movimento 5 Stelle anche Forza Italia e la Lega non partecipano al voto: la maggioranza di unità nazionale non esiste più.

Il Presidente del Consiglio torna a conferire con il capo dello Stato in un quadro ove formalmente la fiducia è stata “incassata”, ma solamente grazie alla mancata partecipazione al voto da parte di chi non l’ha voluta accordare: in Parlamento in realtà non c’è più una maggioranza utile a sostenere un Governo, men che meno un Governo di unità nazionale. Il Presidente della Repubblica, quindi, accetta le dimissioni di Mario Draghi e si prepara a ricevere i Presidenti di Camera e Senato. Svolti questi colloqui, scioglie le Camere ex art. 88 Cost.

Il Parlamento che dovrà essere eletto sarà a “ranghi ridotti” in ragione della (intrinsecamente demagogica) riduzione del numero dei parlamentari operata con la legge costituzionale n. 1/2020: la Camera si compone ora di 400 deputati ed il Senato di 200 senatori elettivi (cui vanno aggiunti i senatori a vita e i senatori di diritto e a vita).

La legge elettorale attuale, la legge n. 165/2017, contempla un sistema misto, in parte proporzionale e in parte maggioritario.

Seppure sia cambiato il numero dei membri del Parlamento da eleggere rispetto a quando è stata approvata, questa legge è comunque applicabile alle elezioni di settembre, poiché, grazie a quanto disposto dalla legge n. 51/2019, può ora operare in buona sostanza indipendentemente dal numero di parlamentari da eleggere. La riduzione del numero dei parlamentari, inoltre, ha reso necessaria la rideterminazione dei collegi elettorali, che è stata effettuata con il decreto legislativo n. 177/2020, adottato in forza di un delega contenuta nella stessa legge n. 51/2019; pertanto, ora i 5/8 dei parlamentari vengono eletti con sistema proporzionale a liste bloccate ed i 3/8 con sistema maggioritario in collegi uninominali.

Questo meccanismo elettorale garantirà la governabilità? Intanto va precisato che la legge elettorale deve garantire in primis la rappresentanza; se poi il suo funzionamento (auspicabilmente) alla rappresentanza coniuga anche la governabilità, tanto meglio. Una netta affermazione di una coalizione – è evidente – agevolerebbe non poco la formazione del Governo, una volta chiusi i comizi elettorali.

Quel che è certo è che non si può pretendere da un banchiere centrale di usare il cuore per governare, visto che se lo si coinvolge in esperienze di governo lo si fa perché da lui si esige di “far tornare i conti” e non certo di “farsi guidare dal cuore”, che, com’è noto, non lo ha mai usato, se non, forse, per fare il nonno.

Federico Girelli

Professore di Diritto Costituzionale

Università Niccolò Cusano di Roma

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