Interviste & Opinioni

Come analizzare il fenomeno dell’emigrazione

C’è una domanda che mi assilla da tempo ed alla quale da tempo cerco di dare una risposta sul piano logico-giuridico, legislativo, sociale ed umano. Domanda: qual è la prospettiva migliore per analizzare il secolare fenomeno dell’immigrazione?. Gli immigrati devono essere considerati cittadini legittimi dallo stato che li accoglie o stranieri invasori. Lo studio del fenomeno delle migrazioni internazionali è particolarmente affascinante ed intrigante   per la sua capacità di indagare alla radice gli stessi fondamenti epistemologici che definiscono e interpretano i processi sociali.

C’è un’invisibile o a malapena percettibile linea di demarcazione che separa radicalmente ciò che è “nazionale” da ciò che non lo è. Da un lato ci sono coloro che posseggono la nazionalità di un paese nel quale sono nati, gli stessi sono soggetti alla sovranità dello Stato; dall’ altro esistono quelli che non appartengono a tale nazionalità, dunque non posseggono la cittadinanza del Paese in cui si sono trasferiti.

Pensare all’immigrazione quindi significa pensare allo Stato-nazione.L’ immigrazione, per Sayad, sociologo e filosofo algerino, costituisce il limite stesso dello Stato nazionale che per esistere fa riferimento alle frontiere nazionali e si è dotato dei criteri necessari per distinguere tra i nazionali e gli “altri”. Riflettere l’immigrazione rimanda ad interrogare lo Stato e le sue fondamenta.

L’immigrazione spesso disturba perché obbliga a smascherare lo Stato, il quale è obbligato ad esplicitare in che modo interpreta ed intende gestire il fenomeno migratorio e il suo modo specifico di pensare l’immigrazione. I migranti sono percepiti come stranieri rispetto ad una comunità resa leale e solidale attraverso lo Stato e le sue leggi; gli stessi diritti dei cittadini che vi risiedono sono riconosciuti e garantiti dallo stesso. Sono i processi di costruzione sociale e istituzionale che stabiliscono e riconoscono quella fondamentale distinzione tra cittadini e stranieri. La condizione di straniero non è attribuita individualmente o peggio ancora capoticamente, bensì è l’esito di scelte perlopiù unilaterali da parte di una determinata dottrina statuale.

Non esistono e forse non sono mai esistiti “confini naturali” delle nazioni. Le frontiere sono anzitutto un’istituzione. Da un punto di vista storico la nozione di “confine naturale” è semplicemente un mito o addirittura una invenzione utopica e astratta. La decisione di collegare il confine a un fiume o a una catena montuosa ha a che fare con la volontà di “naturalizzare” un concetto che è essenzialmente politico. Per effetto di questo processo di naturalizzazione, il significato del concetto può essere essenzializzato e assumere una consistenza quasi ontologica – nel senso che, come il corso di un fiume o il profilo di una catena montuosa è un dato impossibile da modificare (a meno che non si voglia usare inaudita violenza e andare contro), così anche il confine finisce per apparire come qualcosa che “è lì da sempre”.

Se lo si considera invece come un’istituzione, e cioè come un artefatto storico e politico, diplomatico e simbolico, esso perde il suo alone di naturalità e assume il profilo di un dispositivo complesso che serve sia a selezionare, sia a respingere l’accesso a uomini e donne agli spazi territorialmente propri della cittadinanza. È solo attraverso la struttura istituzionale dei nascenti Stati moderni che i concetti di “confine” e “straniero” sono andati assumendo il significato che hanno oggi. Il che è stato possibile istituzionalizzando la distinzione tra cittadini e stranieri e l’assoggettamento di quest’ultimi ad una disciplina speciale, che mira a stabilirne l’estraneità dalla nazione dal punto di vista pratico e simbolico, consentendone al tempo stesso la permanenza a determinate condizioni.

Ed è attraverso una serie di norme giuridiche, amministrative e ideologiche che si è definito il nuovo concetto di straniero e con esso un concetto asimmetrico nel riconoscimento dei diritti e nella concessione delle opportunità per la loro crescita sociale ed economico. Le migrazioni dell’epoca moderna hanno accompagnato le varie fasi del processo di modernizzazione delle società occidentali, rispecchiandone le esigenze e le filosofie prevalenti. Nel periodo prebellico, i movimenti migratori erano sostanzialmente liberi o addirittura incoraggiati, perfino in quei paesi (come la Germania) che successivamente sposeranno una legislazione fondata sullo “jus sanguinis”, ossia sul principio di discendenza.

L’approccio “civico”, ovvero la condivisione di diritti di cittadinanza a identificare coloro che appartengono al popolo, cederà il passo ad un nuovo approccio basato sui concetti di etnia e razza. Il “popolo” comincerà a designare una nazione unita da una discendenza comune e da una patria condivisa. Da questo momento lo Stato-nazione si conforma all’idea di una comunità politicamente unitaria ed etnicamente e culturalmente omogenea, in cui la nazionalità si sovrappone alla cittadinanza. Nel XIX secolo, gli Stati cominciarono a dare vita ad istituzioni per regolare la mobilità internazionale delle persone, di volta in volta negando, permettendo od offrendo la possibilità di attraversare confini nazionali, nonché di risiedere in maniera temporanea e permanente sul proprio territorio.

Nel XX secolo c’è stata l’introduzione dei passaporti e dei documenti d’identità che attestavano lo status di cittadino, ma anche quello di straniero. Dopo la fine della seconda guerra mondiale si consumò la fine del regime migratorio liberale. L’idea di una comunità nazionale acquisì una plausibilità senza precedenti, e con essa, la distinzione tra nemici e amici fondata sul background nazionale. Il processo già avviato di costruzione di un sistema di controllo dei flussi venne iscritto in forme inedite di policing nei confini.

Per entrare e risiedere in un determinato paese diventò necessario richiedere un permesso, una sorta di metafora della distinzione tra cittadini e stranieri (coloro che necessitavano di una specifica autorizzazione). Il concetto di confine assunse così il significato contemporaneo, delimitando non solo il territorio d’esercizio dell’autorità statuale, ma fungendo anche da filtro per selezionare coloro che, pur non essendo cittadini di un determinato Stato-nazione, aspiravano a risiedere e lavorare in esso. All’interno del dibattito sulla cittadinanza, ben lungi dall’essersi concluso, la riflessione muove da una constatazione inequivocabile: se l’idea di unicità dell’essere umano, comprovata anche da recenti scoperte scientifiche sul genoma, ha fatto ormai breccia nell’opinione pubblica mondiale (tanto che oggi lo stesso razzismo non si basa su considerazioni genetiche ma piuttosto culturali), non è chiaro il motivo per cui il nostro continua ad essere un mondo diviso in Stati, ciascuno dei quali esercita la propria sovranità su un territorio ed una popolazione.

Negli ultimi anni abbiamo sentito ripetere l’espressione “Fortezza Europa”; il termine era impiegato dalla propaganda del Terzo Reich durante la Seconda Guerra Mondiale per indicare, a partire soprattutto dal 1942, l’Europa continentale sottoposta al predominio politico-militare della Germania nazista in contrapposizione con gli Alleati anglosassoni. Attualmente questo termine è usato per descrivere lo status dell’immigrazione in Unione la stessa viene protetta e sorvegliata da satelliti e navi da guerra e protetta da muri.

La storia degli ultimi 25 anni ci dice che a prescindere da quanto si rafforzi la fortezza Europa, recinti e navi da guerra non fermeranno i migranti, né controlli più rigidi modificheranno la percezione del problema tra l’opinione pubblica. Trasformare ancora di più l’Europa in una fortezza non contribuirà ad attenuare il senso di frustrazione così diffuso. Politiche migratorie più accoglienti possono essere attuate solo con il consenso dell’opinione pubblica, non a dispetto della sua opposizione. Conquistare questo consenso non è impossibile, non c’è nessuna legge secondo cui le persone debbano necessariamente essere ostili all’immigrazione.

Gli emigranti hanno bisogno del nostro aiuto, lasciano a malincuore la terra in cui sono nati, spesso lasciano anche le loro famiglie per cercare migliori e più umane condizioni di  vita (sperando in un futuro ricongiungimenti) In una sua  poesia  Moustau, 20 anni nato in Togo ma che  ora vive a Treviso scrive  “Cari italiani, io mi sento un uomo nero, senza la vita, ho paura della solitudine.

Oggi io sono nella vostra terra perché ho perduto tutti nella mia vita. Ho solo la mia voce per implorare qualcuno di salvarmi, anche il mio cuore per mostrare che sono venuto come amico. Se non è abbastanza datemi l’opportunità di dimostrarlo. Ho la pelle nera, io voglio dare e ricevere amore. Per favore non mi rifiutate, per favore curatemi con gentilezza amore e rispetto. Io vi prometto di ripagarvi in cambio con amore e rispetto per il resto della mia vita. Grazie per avere salvato la mia vita dal mare”.

Non ci sono parole migliori per descrivere che dietro all’immigrazione ci sono soprattutto persone e vite che devono essere salvate.

Segue 2° parte.

Giacomo Marcario

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